giovedì 17 luglio 2014

CIÒ CHE CONTA È IL PENSIERO

CIÒ CHE CONTA È IL PENSIERO
di Roby Noris

In età di pensionamento ci si chiede cosa sia la sintesi di quello che conta e che si può considerare come il proprio personale arricchimento. Non ho nessun dubbio, ciò che sintetizza i miei anni di attività sul fronte della socialità e della comunicazione è la profonda convinzione che “ciò che conta è il pensiero”. Non è una affermazione riservata agli idealisti, ai rivoluzionari e ai martiri, ma è il rendersi visibile di ciò che è essenziale, autentico e non deperibile, e nessuno può portartelo via. Per chi vive la sua professione sul fronte del confronto quotidiano, con progetti concreti, con milioni da gestire bene, sembra incredibile che non sia soprattutto l’azione e i risultati concreti a contare davvero. Eppure è così. La ricchezza straordinaria, tutta mia, ma nello stesso tempo condivisa con i miei collaboratori e con molti amici, reali e virtuali, è quella sintesi che ho simbolizzato, nell’ultimo editoriale diquesta rivista, col triangolo C,Y,Z (Corecco, Yunus, Zamagni) che collega facendole interagire, alcune espressioni geniali della lettura di alcuni nodi centrali della nostra epoca riguardo all’individuo e alla collettività globalizzata: nessuno è definito dal suo bisogno (Corecco), tutti sono potenziali soggetti economici produttivi (Yunus) e ci sono risorse per tutti, il deficit è nelle istituzioni (Zamagni).

Una visione poco condivisa in area sociale e persino cattolica, per non parlare poi della sinistra politica. Il piagnisteo pauperistico è stravincente, perché gratificante, perché permette ai “sociali” e ai politici di sentirsi utili e persino indispensabili, fa credere che ci siano sempre soluzioni a corto termine. La cronicizzazione conseguente dei mali e dei guai, non sempre è visibile e quand’anche lo diventa si accampano scuse di tutti i generi per evitare di ammettere che l’assistenzialismo è un male peggiore della povertà perché fa danni senza possibilità di uscirne. Invece responsabilizzare gli altri non considerandoli vittime dell’ineluttabile (o dei cattivi), ma come portatori di risorse e di dignità da esprimere in una assunzione di responsabilità, è molto difficile perché rispettare questa precisa libertà dell’altro significa spesso essere impotenti e dover assistere al disastro insopportabile della persona sofferente che ha scelto di andare a fondo. E lasciarglielo fare perché solo così si apre una possibilità di realizzare un progetto a lunga scadenza che solo quella persona (e non noi) può decidere di iniziare a realizzare. Noi siamo ridotti solo a strumenti di sostegno ma mai protagonisti delle scelte determinanti per la svolta della vita delle persone? Esattamente, ma spesso è insopportabile. E poi armonizzare questa convinzione riguardo alle risorse dell’individuo, con lo sguardo su un mondo globalizzato che chiede una continua attenzione alle sfide politiche riguardo agli squilibri fra i pochi che hanno tutto e i tanti che non hanno nulla. Ma la speranza sta nel pensiero sano, nella capacità di analizzare i diversi piani senza fare confusione. La lucidità di un pensiero che informa l’azione e non i pasticci alla rovescia sbandierati come pragmatismo.

È solo su questa ricchezza di visione della realtà, della storia, dell’evoluzione degli esseri umani che si può riporre quel barlume di speranza per uno sviluppo praticabile fondato su modelli economico-politico-sociali capaci di dare un senso all’esistenza del singolo come della collettività planetaria.