martedì 22 settembre 2015

INIZIATIVA MULTINAZIONALI RESPONSABILI con Dick Marty



Dick Marty, fra i promotori dell’iniziativa sostenuta da 70 organizzazioni, affronta la questione nodale della responsabilità globale della Svizzera e le sue conseguenze. ¾ delle multinazionali che hanno sede in Svizzera sono attente sia alle problematiche ambientali che ai diritti umani nei paesi dove operano, ma l’iniziativa, per cui si raccolgono le firme fino al 31 ottobre, vuole imporre questa attenzione anche a chi oggi non si assume questa responsabilità.
Informazioni su : www.iniziativamultinazionali.ch

mercoledì 8 luglio 2015

SCHIAVITÙ moderna, un affare da 150 miliardi di dollari


Stime da 20 a 36 milioni di persone.

di Roby Noris

(Editoriale - Caritas Ticino Rivista - nr.2 - luglio 2015)

http://www.caritas-ticino.ch/media/rivista/archivio/riv_1502/riv_2015_R2_index.html

http://www.caritas-ticino.ch/media/rivista/archivio/riv_1502/Noris_Roby_editoriale_R2_2015.pdf


A ricordarlo è Mira Sorvino, attrice hollywoodiana, protagonista nel 2005 del film Human Trafficking (rivista nr 2 luglio 2007 e rivista nr 4 dicembre 2011), 



diventata ambasciatrice dell’ONU per la lotta alla schiavitù, traffico di esseri umani, in un servizio (scritto e video) della CNN, del 24 giugno 2015 che fa rabbrividire riportando alla ribalta il dramma del traffico di esseri umani, schiavi moderni, che tocca un numero impressionante di paesi, dall’India alle Filippine, dalla Thailandia al Brasile, dal Nord Corea alla Somalia. Le stime variano da 20 a 36 milioni di persone.

E negli stessi giorni mi è capitato di vedere uno stralcio di un documentario francese sulla prostituzione infantile in Madagascar, che in sintesi diceva: la povertà e la mancanza di prospettive fanno sì che solo i turisti bianchi siano la fonte di sussistenza, la prostituzione è quindi per molte bambine l’unica forma di sopravvivenza. Tutti lo sanno, dai politici alla polizia, agli organismi sociali, tutti deplorano ma non c’è niente da fare.

Mi colpisce sempre questa tragedia umana moderna, che sembra normale, ineluttabile, cioè “non c’è niente da fare”, e mi chiedo se la storia un giorno non si chiederà perché questo sia avvenuto sotto gli occhi di tutti. Come lo sterminio di milioni di ebrei, di dissidenti e di “diversi”, operato dai nazisti sotto gli occhi di tutti.

Mira Sorvino mi è particolarmente simpatica perché sfrutta la sua notorietà come elemento positivo per veicolare azioni, giudizi e iniziative contro il traffico di esseri umani. Una lotta impari che, prima di avere i limiti imposti dai pochi mezzi di fronte all’immensità del fenomeno, deve fare i conti con la mancanza dei riflettori mediatici accesi a pieno regime. In altri termini la nostra generale indifferenza; ma perché il traffico di esseri umani non ha mai le prime pagine? Un po’ come succede col tema della fame nel mondo: si sa che c’è ma poiché si pensano cose diverse sui mezzi per farla sparire allora non succede granché (vedi articolo a pag 12). Siccome non possiamo piangere continuamente sulle stesse tragedie, pena l’assuefazione e poi l’indifferenza, i media si adoperano per cambiare periodicamente il programma dei drammi umani da mettere sotto i riflettori. Ecco allora che uno Tsunami con migliaia di turisti occidentali coinvolti diventa un affare colossale che dura mesi: senza turisti occidentali non sarebbe stato nelle headline delle TV mondiali per più di tre giorni.

Ancora per un po’, avremo i riflettori sui migranti del mare (vedi art. pag.10), perché il Mediterraneo è vicino, perché i profughi interrogano l’Europa intera e Brussels non sa che pesci pigliare, l’Italia fa un po’ di spettacolo politico, ma alla fine si cita Gaddafi che gestiva arrivi e partenze dei potenziali migranti africani, e adesso che non c’è più è il caos totale. E voglio ricordare anche i “Perseguitati dell’ISIS” che ormai sono mediaticamente inesistenti, ma che a milioni sono ancora tutti lì nei campi profughi. Ma non fanno più notizia e quindi non se ne parla più. I meccanismi della comunicazione di massa funzionano così anche se ci sono milioni di persone attente e attive per costruire un mondo migliore e molti lottano strenuamente contro il traffico di esseri umani.

E come sempre è una questione di pensiero.
È appena uscito il film “Woman in gold” con Helen Mirren, magnifica interprete di una ebrea scampata all’Olocausto che lotta perché l’Austria riconosca che il famoso quadro di Klimt (titolo del film) è stato sottratto dai nazisti alla sua famiglia.
Interessante nella tesi del film è la forza devastante del politically correct, cioè che un quadro del valore di centinaia di milioni possa spostare la verità dei fatti - cioè il quadro di Klimt apparteneva a una famiglia ebrea di Vienna a cui è stato confiscato dai nazisti - su un piano politico di relazioni internazionali. Solo la caparbietà di un giovane avvocato di origine ebree, nipote del compositore Schoenberg, riuscirà a rimettere la verità al suo posto. Non è solo un film, è storia, quindi a volte l’happy end c’è anche nella realtà.

giovedì 7 maggio 2015

collette su, collette giù: la 3a via

collette su, collette giù: la 3a via
di Roby Noris

I media nostrani hanno dato spazio ad una lamentela di una famosa organizzazione umanitaria ticinese che segnala una diminuzione di offerte e un conseguente deficit. Accanto il CdT ha dato spazio a un'altra organizzazione che si rallegra del fatto che le collette vanno bene.
Ma c'è una terza via, ignorata dai suddetti media, perché strana, forse fuorviante, perché non rientra nello schemino preconcetto: non fare collette e fondare il sistema di finanziamento dell'attività sociale su forme produttive, su iniziative e progetti che permettono di guadagnare, che si inseriscono nel mercato economico. Questa opzione per Caritas Ticino, che l'ha adottata da molti anni, abolendo ogni forma di colletta, si chiama "Social Business" secondo un modello sviluppato dal Nobel Muhammad Yunus. Negli anni novanta ci si è resi conto che quella forma di finanziamento delle organizzazioni socio/caritative tramite raccolte di fondi, non sarebbe stato più possibile come in passato quando si delegava la solidarietà collettiva e individuale a organizzazioni "targate" ideologicamente: i cattolici sostenevano la Caritas, quelli "non" la Croce Rossa e quelli di sinistra Soccorso Operaio. All'epoca abbiamo capito che stava avvenendo un profondo cambiamento sia a livello di partecipazione diretta del pubblico, sia a livello di richiesta di trasparenza e di possibilità di scelta non più legata all'appartenenza ideologica ma al grado di efficienza reso pubblico. Accanto a questa considerazione di uno stato di fatto, c'è stato un cambiamento profondo nel nostro modello di intervento e di conseguenza anche sui mezzi da reperire per realizzare il nostro mandato sociale affidatoci dalla chiesa locale. Da qui tutto lo sviluppo di un concetto di Social Business che non considera più il fundraising, la ricerca fondi, come il mezzo per finanziare le attività ma le attività produttive o alcuni finanziamenti dello Stato. I finanziamenti statali sono accettabili in un modello Social Business quando si opera in sostituzione del settore pubblico che ha alcuni compiti precisi ma può delegarli ad organismi esterni: i programmi occupazionali ad esempio, siccome inseriscono persone con difficoltà, devono colmare il gap produttivo che non dovrebbe esistere se le persone inserite fossero efficienti al 100%.
Quindi produzione di mezzi finanziari per realizzare il lavoro sociale. Questa è la terza via che dovrebbe essere presa più sul serio dalle organizzazioni che si lamentano della diminuzione di sostegno, ma anche da quelle che non hanno problemi, perché il loro modello di finanziamento filantropico non durerà se non in situazioni di emergenza eccezionale dove non c'è il tempo per immaginare altro, ma la gestione normale dell'impegno sociale privato dovrebbe davvero cambiare rotta. Noi ci stiamo provando non chiedendo più soldi con collette ma cercando di guadagnarli.

domenica 1 marzo 2015

Assistenza e convivenza, la solidarietà è legge


di Dante Balbo


Il servizio sociale di Caritas Ticino è confrontato spesso con questioni complesse, che, a seconda dell'angolo da cui vengono osservate possono sembrare corrette o paradossali.

Prendiamo l'esempio che segue:

Una persona con scarse possibilità di trovare un lavoro, perché ha superato abbondantemente i 50 anni, si ritrova senza diritto alle indennità di disoccupazione e deve quindi far capo alle prestazioni assistenziali, rivolgendosi allo sportello Laps. Qui scopre che non ha diritto alle prestazioni sociali, perché convive con una compagna, il cui reddito copre il fabbisogno di entrambi.
La sua obiezione è che la compagna non è obbligata a mantenerlo, perché non sono né sposati né membri di una unione registrata.
La legge tuttavia parla chiaro e non fa differenze significative, fra matrimonio e semplice convivenza, a volte superando perfino la comunione domestica.
Ma andiamo con ordine.
Ognuno di noi appartiene ad una unità di riferimento secondo la legge di armonizzazione delle prestazioni sociali. Di questa unità fanno parte:
  • - la persona che ha chiesto le prestazioni;
  • - il coniuge o il partner di una unione registrata;
  • - il partner convivente, se la convivenza è stabile;
  • - i figli minorenni di cui essi hanno l'autorità parentale;
  • - i figli maggiorenni, se non sono economicamente indipendenti.

Il punto cruciale è il terzo, che riguarda i conviventi, perché la convivenza stabile definisce il diritto alle prestazioni.

Qui ci viene in aiuto il regolamento di applicazione della legge sull'armonizzazione delle prestazioni sociali, che spiega quando una convivenza è considerata stabile:
  • - se vi sono figli in comune;
  • - se la convivenza procura gli stessi vantaggi di un matrimonio;
  • - se la convivenza è durata almeno sei mesi.
Tutto questo è ribadito in una sentenza del tribunale federale del 25 marzo 2011, in risposta ad una signora che contestava il rifiuto del Cantone di fornirle prestazioni sociali, in ragione della sua convivenza con una persona.

Un dettaglio interessante della sentenza riguarda il fatto che, nel caso specifico, era dimostrato un legame pluriennale con la persona, anche se tecnicamente non viveva più sotto il medesimo tetto della signora, per cui, permanendo una relazione stabile, il dovere di mutua assistenza restava invariato.

In altri termini, la legge e la sua applicazione prevedono, in una società complessa in cui il matrimonio non è più l'unico elemento di unità stabile fra le persone, una analisi accurata per stabilire il diritto alle prestazioni sociali, in relazione al tessuto umano e sociale in cui siamo inseriti, sia per evitare abusi, sia per riconoscere nella pluralità delle relazioni quelle significative quanto al dovere di solidarietà, indipendentemente dalla forma giuridica che hanno assunto.

martedì 24 febbraio 2015

QUI SI PARLA SOLO DI BUSINESS



QUI SI PARLA SOLO DI BUSINESS



Tra Business, economia e carità evangelica, quanta confusione.
(Art che apparirà sulla prossima rivista Caritas Ticino n.1 2015)
di Roby Noris


“Qui si parla solo di Business” è una frase pronunciata senza mezzi termini da un membro di comitato di una grossa organizzazione umanitaria svizzera dopo una mia presentazione dell’attività di Caritas Ticino. Non mi ha fatto piacere ma in fondo « niente di nuovo sotto il sole », anche se ormai dovrebbe essere chiaro, almeno per gli addetti ai lavori, cosa sia la differenza fra Business e Social-Business. Ma se non è chiaro per quelli che hanno tutte le informazioni, figuriamoci cosa possa essere la confusione per gli altri. Quindi vale la pena di riprendere queste distinzioni e definizioni fondamentali.
 Caritas Ticino ha scelto da almeno vent’anni la strada dell’autoimprenditorialità sia per la propria sussistenza, in quanto organizzazione che cerca di autofinanziare il più possibile la sua attività sociale, sia come metodo di intervento nei confronti delle persone indigenti che vengono considerate come portatori di risorse e quindi potenzialmente capaci di diventare protagonisti della propria lotta alla precarietà. Social Business è la definizione di Muhammad Yunus, Nobel per la pace e creatore della Grameen Bank, che ha sviluppato il microcredito come possibilità per i più poveri di uscire da quella condizione diventando imprenditori. La sua rivoluzione sta nell’aver « fatto fiducia », cioè nell’aver creduto che povere donne in Bangladesh potessero trasformarsi in soggetti economici produttivi, cioè in imprenditori. Nella ricca Svizzera i concetti  fondamentali su cui fondare interventi sociali ed economici non cambiano, quindi anche qui la difficoltà, come in Bangladesh sta nel credere che anche chi è messo male, ha difficoltà, ha un handicap, ha fallito vari tentativi, è comunque e sempre portatore di risorse, cioè, come diceva il Vescovo Corecco, « è molto più del suo bisogno » e quindi non deve essere definito e considerato come « mancante » di qualcosa ma come portatore di un potenziale. Il cambiamento di prospettiva rispetto alla posizione tradizionale centrata sul bisogno e quindi sul trovare mezzi per colmarlo, è gigantesca, direi epocale, perché rovescia completamente il modo di guardare la persona indigente e il nostro modo di porsi nei suoi confronti. Se guardando una persona etichettata come povero, vedrò prima di tutto il suo lato positivo, cioè le sue risorse e le sue capacità potenziali, tanto per cominciare sorriderò di fronte alla speranza che si sviluppino e diventino risolutive; per contro se sposo la lettura tradizionale assistenzialista, considererò quella persona come una vittima dell’ineluttabile, un fallito  che da solo non potrà mai farcela e che solo io, « ricco », potrò tirare fuori dall’indigenza. Una forma soft, ben mascherata di delirio di onnipotenza. Purtroppo in area cattolica, ma ancor più in quella protestante americana, è vincente questa concezione dell’altruismo e in fondo della dimensione della carità distorta in un processo a senso unico, dove l’indigente è sempre solo oggetto passivo, incapace di diventare soggetto attivo, mentre il benefattore, il filantropo, ha il potere di tirar fuori dai guai la vittima indigente. E di come il filantropo sia capace di produrre ricchezza da distribuire ai poveri non si vuol sapere nulla per non essere contaminati dal demone del Business e dell’economia. In se il filantropo è generalmente una persona buona e sinceramente desiderosa di fare del bene: l’errore - o la distorsione - sta invece nel modello di intervento che, siccome non coinvolge il povero nel processo economico produttivo,  è inefficace e figlio di un pensiero ammalato, anche se il filantropo è in buona fede e non lo sa.
Qui non si parla solo di Business ma di Social Business.