QUI SI
PARLA SOLO DI BUSINESS
Tra
Business, economia e carità evangelica, quanta confusione.
(Art che apparirà sulla prossima rivista Caritas Ticino n.1 2015)
di Roby Noris
“Qui si
parla solo di Business” è una frase pronunciata senza mezzi termini da un
membro di comitato di una grossa organizzazione umanitaria svizzera dopo una mia
presentazione dell’attività di Caritas Ticino. Non mi ha fatto piacere ma in
fondo « niente di nuovo sotto il sole », anche se ormai dovrebbe
essere chiaro, almeno per gli addetti ai lavori, cosa sia la differenza fra
Business e Social-Business. Ma se non è chiaro per quelli che hanno tutte le
informazioni, figuriamoci cosa possa essere la confusione per gli altri. Quindi
vale la pena di riprendere queste distinzioni e definizioni fondamentali.
Caritas Ticino ha scelto da almeno vent’anni
la strada dell’autoimprenditorialità sia per la propria sussistenza, in quanto
organizzazione che cerca di autofinanziare il più possibile la sua attività
sociale, sia come metodo di intervento nei confronti delle persone indigenti
che vengono considerate come portatori di risorse e quindi potenzialmente
capaci di diventare protagonisti della propria lotta alla precarietà. Social
Business è la definizione di Muhammad Yunus, Nobel per la pace e creatore della
Grameen Bank, che ha sviluppato il microcredito come possibilità per i più
poveri di uscire da quella condizione diventando imprenditori. La sua
rivoluzione sta nell’aver « fatto fiducia », cioè nell’aver creduto
che povere donne in Bangladesh potessero trasformarsi in soggetti economici
produttivi, cioè in imprenditori. Nella ricca Svizzera i concetti fondamentali su cui fondare interventi
sociali ed economici non cambiano, quindi anche qui la difficoltà, come in
Bangladesh sta nel credere che anche chi è messo male, ha difficoltà, ha un
handicap, ha fallito vari tentativi, è comunque e sempre portatore di risorse,
cioè, come diceva il Vescovo Corecco, « è molto più del suo bisogno »
e quindi non deve essere definito e considerato come « mancante » di
qualcosa ma come portatore di un potenziale. Il cambiamento di prospettiva
rispetto alla posizione tradizionale centrata sul bisogno e quindi sul trovare
mezzi per colmarlo, è gigantesca, direi epocale, perché rovescia completamente
il modo di guardare la persona indigente e il nostro modo di porsi nei suoi
confronti. Se guardando una persona etichettata come povero, vedrò prima di
tutto il suo lato positivo, cioè le sue risorse e le sue capacità potenziali,
tanto per cominciare sorriderò di fronte alla speranza che si sviluppino e
diventino risolutive; per contro se sposo la lettura tradizionale
assistenzialista, considererò quella persona come una vittima
dell’ineluttabile, un fallito che da
solo non potrà mai farcela e che solo io, « ricco », potrò tirare
fuori dall’indigenza. Una forma soft, ben mascherata di delirio di onnipotenza.
Purtroppo in area cattolica, ma ancor più in quella protestante americana, è
vincente questa concezione dell’altruismo e in fondo della dimensione della
carità distorta in un processo a senso unico, dove l’indigente è sempre solo
oggetto passivo, incapace di diventare soggetto attivo, mentre il benefattore,
il filantropo, ha il potere di tirar fuori dai guai la vittima indigente. E di
come il filantropo sia capace di produrre ricchezza da distribuire ai poveri
non si vuol sapere nulla per non essere contaminati dal demone del Business e
dell’economia. In se il filantropo è generalmente una persona buona e sinceramente
desiderosa di fare del bene: l’errore - o la distorsione - sta invece nel modello
di intervento che, siccome non coinvolge il povero nel processo economico
produttivo, è inefficace e figlio di un
pensiero ammalato, anche se il filantropo è in buona fede e non lo sa.
Qui non si
parla solo di Business ma di Social Business.
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