CIÒ CHE CONTA
È IL PENSIERO
Editoriale rivista Caritas Ticino n. 2 2014
di Roby Noris
In età di
pensionamento ci si chiede cosa sia la sintesi di quello che conta e che si può
considerare come il proprio personale arricchimento. Non ho nessun dubbio, ciò
che sintetizza i miei anni di attività sul fronte della socialità e della
comunicazione è la profonda convinzione che “ciò che conta è il pensiero”. Non
è una affermazione riservata agli idealisti, ai rivoluzionari e ai martiri, ma
è il rendersi visibile di ciò che è essenziale, autentico e non deperibile, e
nessuno può portartelo via. Per chi vive la sua professione sul fronte del
confronto quotidiano, con progetti concreti, con milioni da gestire bene,
sembra incredibile che non sia soprattutto l’azione e i risultati concreti a
contare davvero. Eppure è così. La ricchezza straordinaria, tutta mia, ma nello
stesso tempo condivisa con i miei collaboratori e con molti amici, reali e
virtuali, è quella sintesi che ho simbolizzato, nell’ultimo editoriale diquesta rivista, col triangolo C,Y,Z (Corecco, Yunus, Zamagni) che collega
facendole interagire, alcune espressioni geniali della lettura di alcuni nodi
centrali della nostra epoca riguardo all’individuo e alla collettività
globalizzata: nessuno è definito dal suo bisogno (Corecco), tutti sono
potenziali soggetti economici produttivi (Yunus) e ci sono risorse per tutti,
il deficit è nelle istituzioni (Zamagni).
Una visione
poco condivisa in area sociale e persino cattolica, per non parlare poi della
sinistra politica. Il piagnisteo pauperistico è stravincente, perché
gratificante, perché permette ai “sociali” e ai politici di sentirsi utili e
persino indispensabili, fa credere che ci siano sempre soluzioni a corto
termine. La cronicizzazione conseguente dei mali e dei guai, non sempre è
visibile e quand’anche lo diventa si accampano scuse di tutti i generi per
evitare di ammettere che l’assistenzialismo è un male peggiore della povertà
perché fa danni senza possibilità di uscirne. Invece responsabilizzare gli
altri non considerandoli vittime dell’ineluttabile (o dei cattivi), ma come
portatori di risorse e di dignità da esprimere in una assunzione di
responsabilità, è molto difficile perché rispettare questa precisa libertà
dell’altro significa spesso essere impotenti e dover assistere al disastro
insopportabile della persona sofferente che ha scelto di andare a fondo. E
lasciarglielo fare perché solo così si apre una possibilità di realizzare un
progetto a lunga scadenza che solo quella persona (e non noi) può decidere di
iniziare a realizzare. Noi siamo ridotti solo a strumenti di sostegno ma mai
protagonisti delle scelte determinanti per la svolta della vita delle persone?
Esattamente, ma spesso è insopportabile. E poi armonizzare questa convinzione
riguardo alle risorse dell’individuo, con lo sguardo su un mondo globalizzato
che chiede una continua attenzione alle sfide politiche riguardo agli squilibri
fra i pochi che hanno tutto e i tanti che non hanno nulla. Ma la speranza sta
nel pensiero sano, nella capacità di analizzare i diversi piani senza fare
confusione. La lucidità di un pensiero che informa l’azione e non i pasticci
alla rovescia sbandierati come pragmatismo.
È solo su questa
ricchezza di visione della realtà, della storia, dell’evoluzione degli esseri
umani che si può riporre quel barlume di speranza per uno sviluppo praticabile
fondato su modelli economico-politico-sociali capaci di dare un senso
all’esistenza del singolo come della collettività planetaria.
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